“Eh, il campo inizia l’11luglio…
E la finale? Pensa se l’Italia va in finale…”
“Ahahahahaha!.. sisi come no”. (dialogo di fine giugno 1982)
Va bene, concedetemi una rimembranza, quella dei 15 anni.
Ero caposquadriglia dei Caimani nel reparto Sirio-Sagittario del gruppo scout Roma 140, Monteverde, Donna Olimpia, per intenderci. Ci avevano appena comunicato che il Campo sotto al Gran Sasso sarebbe iniziato l’11 luglio. Ma ce lo avevano comunicato quando l’Italia era ancora a dibattersi a Vigo nel patetico girone eliminatorio… Potrebbe essere una sceneggiatura di un film. Buona lettura.
E ci fu la sorprendente vittoria con l’Argentina di Maradona (2-1), ma soprattutto il trionfo baciato dagli dei protettori con la caduta degli dei brasileri (squadrone dove erano inseriti, inspiegabilmente, un Serginho centravanti e un Valdir Peres in porta) “santeria” avversa, nobile e sconfitta dal fato come nelle migliori tradizioni omeriche (3-2). Poi la Polonia aprì la porta 2 volte, intimorita, e Rossi era l’esile riscossa del made in italy già truffaldino, ma pagante di squalifica, e le braccette al cielo dentro la magliettina “le coq sportive” (ancora polo di cotone, incredibile) le avrebbero ricordate per anni anche in Polinesia.
Perciò, l’11 luglio significava la Germania e la finale a Madrid, praticamente già vinta: c’era qualcuno che potesse contrastare il volere di – Zeus -? Sì, – Era -, la sua incazzosa moglie e un campo scout. Le costruzioni, le tende, il primo giorno di campo, il primo fuoco… Col cavolo. Dico l’Italia è in fi-na-le, anzi no: l’Italia campione del mondo!… Sicuro.
Tutti i discorsi educativi post ’77. Dice: – il calcio? Siamo pazzi? – e poi:- Il campo è la conclusione dell’anno… – . Erano i capi. Alberto detto “Padella” (che ne so perché, cose da rover, credo) faceva discorsi edificanti ma in realtà davvero non gliene fregava una mazza del calcio. E Anna, la grande Anna, vabbè era donna e anche molto più credibile quando parlava, ma in realtà davvero non gliene fregava una mazza manco a lei della conclusione del poema omerico (ah, se l’avesse saputo).
Però si sa che senza scout, il campo scout perde un po’ di significato. E tra discussioni, sensi di colpa sulla purezza dell’esploratore rude al campo, la democrazia dei 15enni vinse, come giusto. E s’attivò il più puro tra gli aiuto-capi, il più essenziale per l’essenzialità del metodo, l’uomo giusto nel contesto giusto: Marco. Marco s’inventò il Compromesso col Mito. Già, l’unico che può far funzionare un compromesso onorevole e soddisfacente per tutte le parti è l’uomo integerrimo, senza compromessi, il cultore delle regole e delle tecniche scout, dei “nodi” financo del “percorso all’azimut” con bussola, a volte fino alla presa per il culo da parte dei 15enni anarcoidi, cioè dei 15enni. Una vecchia (già nell’82) tv a valvoloni e in bn 24 pollici, schermo convesso. Un cavo, un piccolo motore a scoppio e una batteria di un camion. Genialità scout.
Ma torniamo a quel bosco sperduto alle pendici del Gran Sasso. Tutte le squadriglie al lavoro per montare tende e tavoli, cucine e i più snob le doccette. Buche dell’immondizia. Latrine poche o niente ‘che il bosco è immenso. E lui, Marco, che sotto centinaia d’occhi trepidanti, ufficialmente affaccendati in altro succitato, colloca e collega l’apparecchio tv al motorino e questo alla batteria, e prova, con discrezione, la funzione. Si trepida assai, perché si accende, si spegne, si vede malissimo, si vedicchia. Si aggiusta l’antenna…gira, gira ancora un po’…ecco! Fermo!…si vede. In bianco e nero, ma si vede. Il posto poi è quello di una roccia che si erge nei pressi di quello che sarà il luogo dei fuochi di bivacco. Il luogo del racconto, della musica, delle risate delle scenette.
Una Roccia, e il Mito sopra la Roccia, ‘che la Spada era niente a confronto. Si cena, a panini, si sa è la prima sera. Così alle 20.00 al Bernabeu stanno tranquilli: “al campo del Gran Sasso stasera non si cucina, non si fanno le 22.00, possiamo iniziare in orario”.
La curva, intorno alla tv sulla Roccia, si compone. Perfetta, ordinata, religiosa. L’imprevisto del fato. Due ventenni si avvicinano e chiedono di potersi unire a noi. Portano in dote una bandiera italiana, sono di un campeggio delle Acli lì nei pressi. Duri e puri, loro, ma solo fino al richiamo della Roccia. Davanti al compiersi del Mito nulla si puote.
Si può ancora gridare – forzaitalia! – o – azzurri – senza distinguo, il Mito non ammette distinguo. Difatti dal ‘94 in poi si vive senza alcun Mito comune. Non è un caso.
E’ ancora giorno, in montagna alle 20.00. Quel che è peggio è il rumore raspante continuo del piccolo motore, che copre la sigla della mondovisione. Niente “speciali” prima o dopo. Forse non c’erano ancora, di sicuro non per la “Compagnia della Roccia”. Eppoi il Mito, il Rito, si consuma, inderogabilmente tra paletti temporali sicuri. Sennò non è Rito, non è Mito, è il continuo carrozzone contemporaneo.
Insomma tutti ringrazianoddio del bianco e nero, dei valvoloni, del tricolore degli azionisti cattolici, del rumore raspante, dei 90 minuti secchi. Si va a cominciare. Silenzio (trrrrrrrrrrrrrrr), – ohhhhhh – (trrrrrrrrrrrrrrrrr), primi insulti ai tedeschi d’attacco Rumenigge e Littbarski, e un nemico giurato: Stielike, pancetta, riportone, baffetto nero, ma tanto mestiere e cattiveria che ostenta dileggio. Un caprone espiatorio perfetto per omerici eroi, tipo un piccolo Polifemo, per intenderci. Timidezze e impacci per teutonici e soprattutto per gli italioti, come col Perù, come col Camerun. Il terrore di un ritorno a Vigo corre sul “trrrrrrrrrrrrrrrr” del raspante motorino attaccato alla batteria. D’improvviso il guizzo del caschetto di Conti: entra in area e si incontra col gigantesco Briegel, va giù, scomposto e un po’ piagnone. L’arbitro Coelho (ciò che rimane del Brasile in finale) “vede la luce” e fischia il rigore. Stielike quasi lo tocca con la sua pancetta lordotica, lo insulta (in tedesco e un po’ in spagnolo, giocava nel Real). Cabrini sul dischetto. Silenzio.
Passo indietro: Mauro aveva come vicini di curva, così per caso, Dario e Ciro. Mai amati,
Continuiamo. Il Mito ad un certo punto appare crudele ai mortali, che non capiscono il valore della sofferenza del sacrificio per l’approdo all’Itaca finale. Peraltro un rigore non è mai il colpo giusto per il Mito. Ma loro che saltano sui culi nell’erba e nei sassi nel luogo della Roccia, ormai stellato, non lo sanno (chi è nel mito difficilmente capisce di esserne parte) e imprecano disperati quando il bell’Antonio la butta fuori, col Nando Martellini che basito vorrebbe ucciderlo e con lui tutta la italica mondovisione ( Nando M. dice affranto 1 minuto dopo il ferale accaduto: – fuori, fuori… – E poi sta zitto altri 4 minuti: questo è il segnale per il killer del Cabrini).
E si impreca, e anche Mauro con Dario e con Ciro vicini e solidali come amiconi d’infanzia. Peraltro all’epoca andava molto: “ma che avemo mai cacato insieme?” Ecco, al campo scout poteva capitare anche questo, che ci si ritrovava a cacare nel bosco a pochi metri di distanza, praticamente insieme (come era effettivamente successo col Frank). Quindi poteva anche essere che in seguito Mauro avrebbe cacato insieme a Ciro o Dario. Spiegata l’improvvisa e preventiva amicizia.
Succede che finisce il primo tempo e l’ansia sale. Peraltro non c’è nulla da sgranocchiare né da fumare. Quindi sale di più. Si commenta, si finiscono (chi ancora ce l’ha) il panino o un succo santal (coca cola, severamente vietata, o al mercato nero dei campi scout, di adolescente contrabbando, viene 3 santal). Ora il buio li avvolge e la “valvoloni” si erge luminosa sulla Roccia e si vede meglio. I posti a sedere non si cambiano anche se Cabrini ha sbagliato il rigore. Si riprende a giocare. Ignari della profezia che sta per compiersi, la curva attorno alla Roccia attende fino al 11esimo. Come da tradizione delle ultime 3 partite, il deus ex machina Paolo Rossi, fin lì invisibile, appare tra un mucchio di 2 Foster, Briegel, Kaltz e Cabrini che tenta la rivalsa personale. E colpisce, il signor Rossi, abbassandosi, di testa, spinto alle spalle da Zeus. Lo Schumacher dell’epoca, quello in porta, nulla può. 1-0. Boato sotto al Gran Sasso, ‘che il Bernabeu è nulla al confronto. Mauro abbraccia i suoi nuovi amiconi Ciro & Dario (certo sarebbe stata meglio Giusy, ma di sicuro ello non avrebbe osato). Forse non cacheremo mai insieme ma a ‘sto punto è secondario. Per primo viene sempre il Mito. La Ritualità della cacca è costante e sicura, ma quella di stasera è più potente, e segna.
E segna pure Tardelli, un gran goal, dopo altri 14 minuti, con quella corsa gridata che rimarrà icona. E poi la rete di Altobelli, subentrato dopo 6 minuti dall’inizio della partita all’infortunato Graziani. Pertini in piedi con la pipa in mano che benedice il Bernabeu intiero, ride emozionato.
Siamo tutti partigiani.
Rumenigge già non c’era più dal 62esimo, annullato fin lì da zio baffo Beppe Bergomi (18enne ma ne dimostrava già 50 e non solo per autorevolezza). Allora tocca a Breitner (detto “il maoista” per il suo credo politico) vecchio campione, capelli e baffone rimasti agli anni ’70, a segnare una bella rete, come può essere bella e dignitosa la resa coraggiosa al Mito, che anzi lo accresce e lo nobilita. Ma la Compagnia della Roccia, miscredente, continua a stringere le chiappe e a pregare fino al 91°, fino al terzo “campioni del mondo” di Martellini commosso e perciò più lento del solito. 3-1. Poi Scirea e Zoff e Bearzot, e la coppa, e Pertini che continua a benedire tra il re di Spagna e il Cancelliere tedesco. Si abbandona la Roccia a fatica, si torna verso le tende.
Sarà un grande campo. Tanti episodi e tante conferme, contribuiranno a rinforzare l’autostima del 15enne, ma anche la forza di comprendere che si può vincere lasciando spazio agli altri, rimanendo in secondo piano consapevoli del proprio valore. Ma questo si incomincia a comprendere quando, oltre a perdere, si vince ogni tanto, e non per compilare una mera lista di conquiste, ma per introiettare che esiste la possibilità e a volte la probabilità di “vincere” e di costruire ed affermare le proprie convinzioni. Il Mito della finale dei mondiali alla Roccia non fu determinante, naturalmente, ma fu un pezzo bello del percorso di quel quindicenne. Un quindicenne che ancora oggi ricordo perfettamente e senza rimpianti, ma con emozione e gratitudine.