A Mauro Biani di far ridere con le vignette che disegna non gliene frega nulla. “Non è quella la cifra della mia satira”. Ma per buona parte dell’intervista, a tu per tu con il cronista, dialoga con gran senso dell’umorismo. “La mia vera passione non è il disegno, ma la creta. Quando ero ragazzino avevo la casa piena di pongo. Ha presente i soldatini fatti a mano? Ecco. Avevo intere legioni di eserciti. Uno era quello dell’Impero Romano. Lanciavo offensive, manovravo sul fronte, battevo in ritirata come un generale con i suoi uomini. Ha capito? Io che sono pacifista e nonviolento”. Non è l’unica, vitale contraddizione di questo disegnatore che nelle pagine di Repubblica è ospitato nella sezione dei commenti e, con lo stesso stile, ha disegnato per Atlantide con Andrea Purgatori e ora disegna per il programma televisivo di Marco Damilano, Il Cavallo e la Torre. “Il potere oggi è molto più ridicolo di come lo si possa disegnare. Non è la risata che lo smaschera, che lo mette a nudo. Io preferisco lavorare a una battuta che apre improvvisamente uno squarcio di verità, un punto di vista totalmente diverso nella discussione pubblica”. Dicono delle sue vignette – raccolte dalla casa editrice People in sei diversi volumi, gli ultimi dei quali sono “Dove sono i pacifisti?” e “Afascisti” – che sono editoriali più che vignette. “Non hanno tutti i torti. La pazienza di scrivere non l’ho mai avuta. Ma lavoro tutti i giorni per rappresentare con l’estrema sintesi del disegno e delle parole un ragionamento anche lungo e difficile”.
Come ha iniziato?
Su internet, con un blog. Pubblicavo i miei disegni soprattutto per tenerne una traccia. Una specie di diario in pubblico. Poi “Liberazione”, il quotidiano di Rifondazione comunista, mi chiese di pubblicare sul giornale. Non mi sembrava vero, la carta era il mio sogno.
Le piacevano i giornali?
Da ragazzo leggevo “Cuore”, l’inserto satirico dell’Unità. Una volta provai a mandargli anche una vignetta. Era una vignetta su Giulio Andreotti e Gladio, se non ricordo male. Mi dissero. “Buono il disegno, ma sulla battuta ancora non ci siamo”.
E ci rimase male?
Ma scherza? Io mica pensavo di lavorare disegnando. Fino a pochi anni fa, quando ero ancora al “Manifesto”, facevo anche un altro lavoro.
Quale?
Sono stato per trent’anni educatore in un Istituto per ragazzi disabili mentali a Grottaferrata, vicino Roma, dove oggi abito, anche se sono romano. Avevo ragazzi con disturbi di tutti i tipi, da piccoli ritardi mentali, a ragazzi con autismo, a ragazzi con sindrome di down. Sono arrivato lì perché ho fatto l’obiettore di coscienza e poi non me ne sono più andato. C’è un filo che lega il lavoro dell’educatore professionale e il disegnatore satirico (due lavori che amo), è la ricerca di un nuovo punto di vista, e dello sforzo e della responsabilità del linguaggio, della comunicazione.
Ma la sua satira è molto diversa dall’irriverenza di “Cuore”.
Facciamo l’esempio di Silvio Berlusconi, molto satirizzato. Finito lui politicamente, finiti decine di vignettisti che lo disegnavano quotidianamente. È questa la contraddizione della satira che prende di mira un politico. Alla fine dei conti ne diventa dipendente. Oltre a contribuire a incrementare la sua popolarità.
Ma anche le sue vignette sono molto politiche.
Sì, ma io non disegno quasi mai un politico. Mi rivolgo a noi tutti, alle nostre contraddizioni, alle nostre cazzate. I miei disegni nascono sempre da una cosa che me fa ‘ncazza’. L’irrazionalità, la protervia, l’ingiustizia. La vignetta mi aiuta a contenere la rabbia. Anziché tirargli dietro qualcosa, disegno. In fin dei conti faccio sempre la stessa cosa: m’incazzo senza urlare.
Lei insiste molto sull’umanità.
Perché penso che la deriva politica è prima di tutto una deriva linguistica e culturale. Le faccio l’esempio di Luigi Di Maio: quando disse che le ong erano ‘taxi del mare’, ha criminalizzato il soccorso in mare. Non rassegnarsi a quel linguaggio, non farlo passare come un modo neutro di esprimersi, penso sia un modo per restare beneficamente umani.
Ma gli esseri umani sono anche cattivi, violenti, prevaricatori. Perché associa l’umanità al bene?
Perché sono convinto che possiamo anche essere meglio di così. Conosco perfettamente le miserie dell’essere umano. Non c’è bisogno solo di disegnarle per averle presenti. Così disegno anche l’altra parte, quella che è più difficile da realizzare.
Si sente come uno che suona l’allarme di fronte a un pericolo?
Mi sembra esagerato metterla così. Ma penso davvero che la democrazia sia fragile e vada costantemente alimentata e difesa, a partire dal discorso pubblico. Tuttavia, se la devo dire tutta, io penso che cambiavo la società più facendo l’educatore che non la satira.
La sua satira però è anche pedagogica.
Tutto educa nel mondo, lo si voglia o no. Quando Salvini dice che non sentirà la mancanza di un immigrato ucciso da un agente di polizia a Verona non sta forse insegnando qualcosa? Io penso di sì. Penso che insegni a ritenere la vita di un immigrato – a prescindere dalle responsabilità – meno degna della vita di un italiano. D’altronde è quello che professa da quando è stato nominato ministro dell’interno e, a dire la verità, ancora prima che lo fosse.
Lui dice che da ministro dell’interno ha difeso i confini nazionali, per questo lo vogliono mandare in galera.
E da chi li ha difesi i confini? Dalle armate dei saraceni, degli ottomani, dall’assalto dell’Isis? A me quelli che ha tenuto sulla Open Arms sembravano dei poveri cristi. Il processo che è in corso stabilirà se ha commesso dei reati. Ma io – pur detestando il giustizialismo, la gogna pubblica e tutte quelle cose lì – penso che Salvini sia colpevole. Non penalmente. Ma eticamente, umanamente. Della condanna del tribunale non so che farmene. Anzi, se ci sarà, io vorrei che non andasse in galera. Penso che sarebbe sufficiente, per tutti, sapere che il suo comportamento politico è il contrario della nostra Costituzione. Tutto il resto, non serve a niente.
Lei è nonviolento e pacifista.
Sissignore.
Ma ha il mito dei partigiani, che presero le armi in pugno contro il fascismo.
Mi rendo conto che questa è una contraddizione: ripudiare la guerra, ma ammirare gente che l’ha fatta. Posso dirle, però, che non bisogna dimenticare che ci furono anche partigiani che combatterono senza usare la violenza.
Non furono certo il cuore della resistenza.
No. Ma vorrà pur dir qualcosa, credo, il fatto che il simbolo dei partigiani italiani non sia il fucile, ma un fiore.
Cosa significa, secondo lei?
Che il fucile è stato un mezzo, non un fine, il fine era un altro. La Costituzione e l’articolo 11, per esempio.
Ma la guerra è sempre un mezzo.
Per ammazzare le persone?
No, per raggiungere degli obiettivi politici.
E io penso invece sia una follia, che miete vittime in maniera spaventosa e che l’ipotesi della nonviolenza, benché sempre tacciata di utopismo, non sia affatto irrazionale come la guerra.
Obietto che la guerra sia irrazionale.
No?
Per esempio la seconda guerra mondiale scoppiò per fermare Hitler, un obiettivo più che razionale.
Ma anche l’idea di bandire le armi dal conflitto politico ha una ragione profonda, che tutti possono capire, quasi istintivamente. E io penso che sia necessario dire e testimoniare queste cose, anche se sono impopolari, anche se non possono avere successo oggi.
Ma se venisse aggredito personalmente, cosa farebbe?
Ah, se a me danno un pugno forse potrei anche ridarlo. Ma non per questo penso che non ci sia un’altra possibilità, che non potrei anche fare diversamente. E, magari, la prossima volta che mi capita ci riesco a non reagire con la violenza alla violenza.